Il testo e la musica

Sono sempre stato un po’ allergico all’accademismo che si respira in certi ambienti della musica classica (da piccolo non mi piaceva far sapere che andavo in conservatorio, perché il nome conservatorio mi dava l’idea di qualcosa di vecchio). Da un po’ di tempo ho iniziato a pensare che all’origine di questo accademismo ci sia in buona parte una cosa che viene data per scontata, ma che, fermandosi un attimo a pensare, è parecchio strana:

Si esegue musica scritta da altri

Chopin e Liszt eseguivano principalmente la loro musica. Anche Mozart e Beethoven, prima di loro. E dopo, con percentuali variabili, Debussy, Rachmaninov, Bartók, Prokofiev.

Oggi, invece, noi musicisti siamo spesso soltanto esecutori di musica scritta da altri. Questo fatto ci rende una specie di archeologi della musica, dei decodificatori di testi, e la sostanza non cambia molto nel caso in cui si esegua musica contemporanea. Il punto è che in genere alla capacità di leggere la musica non si affianca la pratica della scrittura. Mentre, forse, solo scrivendo si può arrivare ad una vera consapevolezza di cosa in un testo sia sostanziale e cosa, al contrario, sia in un certo senso solo accessorio. L’esecutore puro, infatti, può correre il rischio di mummificare il testo. E quando ci si pone di fronte ad una partitura con l’atteggiamento del notaio, volendo “rispettare tutto ciò che è scritto” si può essere certi che si è imboccata la strada più sicura per allontanarsi dalla musica. Perché la musica non è nel testo, ma oltre il testo.

(Continua)

The text and the music

 
I have always been disturbed by the academicism that you feel in certain classical music environments (as a child, I did not like people to know that I was studying at the conservatory, the name itself made me think of something ancient). Recently, I started to think that such academicism is for the most part coming from something that is given for granted, which however, if you think a bit about it, is quite bizarre.
 
You play music written by others
 
Chopin and Liszt were essentially playing their own music. Like Mozart and Beethoven before them. And later on, with varying percentages, Debussy, Rachmaninov, Bartók, Prokofiev. But nowadays, we as musicians are often simply performers of music written by someone else. That makes us a sort of archeologists of music, decoders of texts, and the essence is not much different as we perform contemporary music. The thing is that the capability of reading the music does not normally pair with the writing practice. Whereas, it is maybe only by writing that one gets to a real awareness of what is essential in a text and what is somehow just unsubstantial. Indeed, the pure performer may risk to mummify the text. And by approaching a score with a notary’s attitude, wanting to “entirely follow what is written”, you can be sure that you choose the best way to distance yourself from the music.
Since music is not in the text but beyond it.
 
(to be continued)

Preludio

matera_piano_trio_3-2

Mi piace pensare che questi post, anche se il loro contenuto sarà molto spesso riferito alla musica in generale e al pianoforte in particolare, saranno letti non soltanto dai musicisti ma da (semplici?) lettori curiosi.

Si parlerà senz’altro di musica, di interpretazione, di letteratura pianistica, di strategie di studio, dei processi di apprendimento, si commenteranno le esecuzioni di vari interpreti, si parlerà di errori ricorrenti, di analisi, di armonia. Ma si cercherà di trattare questi argomenti non per se stessi e non in modo esclusivamente tecnico, ma come indizi di qualcosa di più generale. L’obiettivo non è quindi divulgativo, poiché la divulgazione porta un pubblico vasto ad occuparsi di un argomento limitato: sarebbe bello invece riuscire a stabilire, a partire da questi argomenti, connessioni fitte ed imprevedibili anche con campi molto lontani dalla musica e dal pianoforte.

Si impara veramente quando qualcosa che sta fuori di noi ci segna dentro: infatti “insegnante” è letteralmente colui che nell’allievo lascia un segno, una traccia abbastanza profonda da essere riconoscibile (ma non tanto da diventare uno sfregio J). Ma si impara veramente quando quello con cui si entra in contatto crea una risonanza dentro di noi, una sorta di vibrazione per simpatia che innesca un processo al termine del quale noi non siamo più come prima. Se manca questo processo interiore può esserci tutt’al più imitazione, ma certamente non apprendimento.

Il vero apprendimento è una forma di affinamento e non di accumulo.

Non so se quello che sto per dire valga solo per me o non sia piuttosto l’indizio di qualcosa di più generale: se ascolto un musicista, in fondo, posso godere di quello che fa ma posso anche non imparare nulla. Corro il rischio di volerlo imitare, ma dopo? Sono le motivazioni dell’agire, la particolare attitudine verso gli altri e le cose, è lo spirito, l’intenzione che si svela anche attraverso un niente che ci nutre e ci fa desiderare di andare oltre. Per questo imparo di più da un pittore, da un architetto, da un filosofo, da uno scrittore. Perché quello che il loro fare mi dice entra subito in contatto con una parte molto profonda di me, una parte che non è distratta da troppe informazioni.

Pensiero da approfondire, perché non sembri l’elogio del dilettantismo, dell’accostarsi frenetico e approssimativo alle cose che non si conoscono a fondo. Approfondiremo. Al prossimo post.